(versão em italiano do conto "Bola de Neve")
Era gennaio. Era caduta la neve e i boschi intorno erano belli, con quelle macchie bianche e quel silenzio grande. Io ero andato a fare un giro da solo, per salutare le strade del mio paese, le case che conoscevo una per una, gli angoli che erano stati ...Continuar leitura
(versão em italiano do conto "Bola de Neve")
Era gennaio. Era caduta la neve e i boschi intorno erano belli, con quelle macchie bianche e quel silenzio grande. Io ero andato a fare un giro da solo, per salutare le strade del mio paese, le case che conoscevo una per una, gli angoli che erano stati i miei rifugi di bambino, la Fontana Vecchia, la vecchia quercia allentrata del paese.... Camminavo così quando vidi una ragazza che conoscevo. Mi avvicinai per salutarla, perchè quel giorno, le dissi, partivo per lAmerica, andavo in Brasile. Ma lei, invece di stringere la mano che le tendevo, si abbassò, fece una palla di neve, me la gettò con forza sul viso e scappò via senza dire una parola, lasciandomi impalato, la mano tesa, quel freddo di neve sul viso.
Raccontando, il viso di mio zio Consolato si illumina:
- Forse mi voleva bene - dice, e sorride.
Sorrido anche io, e guardo i suoi capelli bianchi, che abbozzano ancora un ciuffo sulla fronte, come palla di neve rimasta lì, sospesa tra la rabbia e lo stupore.
- Era il gennaio del l922, - continua a raccontare mio zio - e davanti la porta di casa cera molta gente. Era sempre così, quando partiva qualcuno, tutto il paese andava a salutare. E io ero lì, tra i molti abbracci e i molti addii, quando mio fratello Carmelo, che aveva circa quattro anni, mi chiamò, "Consolà, Consolá", mi chiamò. Era in cima alla scala e prese a scendere piano, reggendosi alla ringhierina, e continuava a chiamarmi, "Consolà, Consolà", e al penultimo scalino si fermò e mi tese le braccia dicendo "Consolà, tu te ne vai e a me non mi ci porti? ". Proprio così disse: "Consolà, tu te ne vai e a me non mi ci porti? - ripete mio zio, e tende le braccia imitando il gesto del fratellino, e dice quelle parole in lento calabrese, suono di cantilena che riporta intatto quellantico lamento infantile.
- Era lanno del l922 e io avevo diciassette anni, - continua mio zio. - In quel tempo facevo il legnaiuolo, nei boschi della Sila. Era pieno di boschi intorno ad Adami, il mio paese. Boschi di castagni e di querce. Io tagliavo alberi e facevo tavole. Con sega e pialla, tutto a mano. Io lavoravo e guadagnavo e così potevo aiutare la famiglia, una scaletta di fratelli e sorelle tutti più piccoli di me, e mia madre incinta, quasi per partorire di nuovo. A me veramente piaceva di più fare il calzolaio. Da piccolo facevo scarpette di pezza per le bambole di pezza delle mie sorelline, e poi ero andato a lavorare da un calzolaio a Soveria Mannelli, la cittadina più vicina, dove ci si poteva arrivare a piedi. Non guadagnavo niente, ma imparavo il mestiere, e io ero contento, perchè facevo una cosa che mi piaceva tanto. Però quando finì la guerra, nel 18, e venne la spagnola, dovetti abbandonare quel mestiere. Mia madre dovette chiudere il negozio dove vendeva pane, vino e olio e tutti rimasero stesi a letto per giorni e giorni. Io ero lunico a star bene e dovevo prendermi cura di loro, fare tutte le cose di casa, lavare, far da mangiare... E questo certo non mi piaceva tanto, lunica cosa che mi piaceva era quando andavo a prender il latte di capra, per strada ne bevevo un bel sorso, poi passavo alla Fontana Vecchia e completavo con acqua. Mi veniva un po di rimorso nel fare ció, ma non resistevo alla tentazione di quel latte così tiepido, appena munto...Nessuno di casa morì, ma in paese furono molti i morti, non cera giorno che non morisse qualcuno. Brutta cosa fu. E quando finì la spagnola e mia madre riaprì il negozio, molti che avevano comprato a prestito non poterono pagare, alcuni morti, altri senza soldi. E io non potei più tornare a imparare il mestiere di calzolaio, perchè a far quello non guadagnavo niente. Dovevo fare qualcosa per guadagnare soldi, perchè ero il più grande di casa, io, e cerano molte bocche da sfamare. Allora andai a tagliare alberi e a fare tavole. Gli altri miei fratelli andavano a dare una mano alla carcara di nonna, la madre di mia madre, aiutavano a fare mattoni, anche le femmine. Anche io da piccolo ero andato a fare mattoni, tutti noi da piccoli lo abbiamo fatto, era il nostro dopo-scuola. Ma ormai ero grande e potevo tagliar legna e guadagnare soldi. Dai quattordici ai diciassette anni fu quello il mestiere che feci, il legnaiuolo. Prendevo lavoro a cottimo, avevo qualche aiutante e guadagnavo abbastanza bene, e avevo anche la ragazza, Mariuzza...
- Ma allora perchè sei partito, zio? - chiedo. - Perchè hai deciso di lasciare tutto e partire?
- Ma non sono stato io a decidere - risponde mio zio. - È stato mio padre. Un bel giorno mi disse: "Andiamo in Brasile". Così disse: "Andiamo in Brasile, io e te". Io ormai ero abbastanza grande, potevo partire. Lui, mio padre, era già stato in Nord America, quando io ero ancora piccolo. E ora voleva partire di nuovo. Non si dava pace, voleva partire. La maggior parte della gente di quel paese viveva senza pace, pensava solo a partire, ad andare in qualche altra parte del mondo, in America, o in Australia. Ed era successo che uno di un paese vicino era tornato dal Brasile, ed era tornato con soldi, si era comprato una casa, era diventato ricco...I suoi figli usavano scarpe lanno intero, non solo in inverno come facevamo noi, scarpe con i chiodi sotto per durare a lungo e passare da un figlio allaltro...Io non volevo partire, ma non ci fu modo, lui voleva partire e nulla lo avrebbe retto. "Questa volta - diceva - partiamo in due. In due è sempre meglio. Si può guadagnare molti soldi, in due. Faremo subito lAmerica e torniamo ricchi e i miei figli non cammineranno più scalzi...".
Si ferma, mio zio, chiude un po gli occhi, poi continua:
- Cera molta gente davanti la porta di casa. Era sempre così, quando partiva qualcuno, tutto il paese andava a salutare. Mia madre, ritta davanti la porta, mi abbracciò dicendomi : "Stai accorto, figlio mio". Solo questo: "Stai accorto, figlio mio- e mio zio ripete la frase, come quella del fratellino, in calabrese. Parla in italiano con me, intramezzando magari qualche parola in portoghese. Ma queste frasi le dice in calabrese, ed é impressionante come è rimasto intatto in lui quel dialetto, ripete quelle frasi quasi fosse stato ieri a udirle, quasi nessun tempo fosse trascorso, tra laverle udite e il ripeterle. E continua:
- In quel tempo Adami era isolata tra i boschi, non cera treno né corriera. E per arrivare alla stazione di Nicastro bisognava camminare diciassette chilometri, per una mulattiera che scendeva giù giù in mezzo ai boschi. Un altro ragazzo del paese partiva anche lui per il Brasile insieme a noi, e tuo padre e un suo amico ci accompagnarono fino a Nicastro, con l asinello di nonno per portare le valigie. Non che fossero pesanti le valigie, ma cera molto da camminare. E camminavamo giù per la mulattiera in silenzio, i passi attutiti dalla neve. E io udivo dentro di me le parole di mio fratello Carmelo, e il pianto suo perchè voleva partire anche lui, e le parole di mia madre, e pensavo a tutti i posti che lasciavo, e guardavo i boschi, che forse per lultima volta vedevo e sentivo ancora il freddo di quella palla di neve sul viso...Scendevamo in silenzio, noi che partivamo e loro che rimanevano. E io sapevo che loro mi invidiavano, lo avevano detto, "beato te che parti", avevano detto. Io partivo per lAmerica, avrei preso un treno per Napoli, avrei preso una nave, avrei viaggiato giorni e giorni e sarei arrivato in una terra lontana, che dicevano ricca e generosa... E loro avrebbero ripreso la vecchia mulattiera, con lasinello alleggerito, rifacendo i nostri passi rimasti sulla neve, sù sù, in silenzio in mezzo ai boschi...
E mio zio parla del viaggio in treno, del freddo in treno, delle fermate nella notte, dei nomi che passavano, di città e paesi mai visti fino allora. Parla di Napoli, del suo spavento alluscita dalla stazione, al vedere per la prima volta un tram. E poi racconta che a Napoli non poterono imbarcare e che avevano dovuto viaggiare fino a Genova, in un treno pieno di freddo e con tanti altri nomi di città che passavano. E racconta che infine viaggiarono in una nave francese di nome Valdivia. E parla dei giorni e giorni a bordo del Valdivia, del freddo allinizio del viaggio, dellenorme stanzone dove stavano ammucchiati tutti gli emigranti, come animali, tutti una sola miseria. E parla del caldo che venne dopo, passato lo stretto di Gibilterra, lungo la costa africana, in pieno oceano tra Africa e America. E dello sconforto che aumentava giorno dopo giorno, con tanta acqua e tanto cielo, e quella terra che non arrivava mai. E della paura che molti cominciarono a sentire, che forse lAmerica non esisteva...
- Ma poi alla fine arrivammo, - dice mio zio. - Era notte quando la nave si fermò al largo di Rio de Janeiro, nella baia di Guanabara. Noi dormivamo, ma ci svegliarono le sirene che annunciavano l`arrivo e corremmo tutti in coperta, tutti meravigliati per lo spettacolo che avevamo davanti gli occhi, tutte quelle luci che mai ne avevamo viste tante assieme. Rimanemmo a lungo in coperta a guardare incantati, noi tutti bambini davanti la nuova terra. E lo stesso incanto provammo la notte di quello stesso giorno, costeggiando Copacabana verso Santos. Per me una festa in più a Rio era stata una dozzina di banane che avevo comprato per quasi nulla e che avevo mangiato da solo, una banana dopo l`altra, convinto ormai che lAmerica esisteva...
Fa una pausa mio zio, di nuovo gli occhi chiusi, nel ricordo di quelle prime banane mangiate in vita sua. Poi continua:
- Ma a Santos fu diverso. Faceva un gran caldo quando arrivammo, e il cielo era grigio, pesante di nuvole basse che lo coprivano intero. E tutto era buio, il cielo, il mare, i monti coperti di boschi, le case, la banchina del porto, la gente che si aggirava là nella banchina, buia e triste, molti mal vestiti e scalzi. E io mi sentii prendere da una gran paura, dissi a mio padre che non volevo scendere, che anche lí cera miseria e allora miseria per miseria preferivo il mio paese, volevo ritornare su quella stessa nave, e mi venne una gran voglia di piangere, dimprovviso preso da una nostalgia senza nome dei miei boschi, del mio cielo...E invece sbarcammo.
Si ferma di nuovo, mio zio, segue per un po il movimento della mia penna sulla carta, poi continua;
- E poi avevamo già un contratto di lavoro. Prima dello sbarco, un signore era salito sulla nave e sceglieva gente per lavorare in una fazenda di caffè, e anche noi fummo scelti, noi tre, mio padre, io e quel ragazzo del mio paese, e subito ci fecero un contratto di lavoro. Ma prima ci portarono allHospedaria dos Imigrantes, a San Paolo, nella via Visconde de Paraiba, dove rimanemmo tre o quattro giorni. Era lalloggio dove riunivano tutti gli immigrati per lo smistamento. Da lí ognuno seguiva la sua strada, verso qualche fazenda di caffè. Era per la coltivazione del caffè che volevano allora mano dopera, per questo facevano venire gente da così lontano, dall Italia, dalla Spagna, da tanti altri paesi... Anche nellalloggio stavamo tutti ammucchiati in un grande stanzone, come prima sulla nave. E stavamo lí intontiti, senza sapere niente del nostro destino, senza capire una parola, ammucchiati e intontiti, solo ad aspettare non si sapeva cosa, finchè ci misero di nuovo su un treno che ci portò alla fazenda. La nostra era la Fazenda Nova-Lousã, vicino alla città di Mogi-Mirim. E là arrivati ci portarono subito in direzione, dove affidarono una casa a ogni famiglia o gruppo e spiegarono il lavoro da fare. Chi faceva tutto questo era il fattore, il capataz, como lo chiamano qui. Non parlava italiano lui, ma si faceva capire, si faceva aiutare da qualche italiano da tempo residente nella fazenda, faceva dei gesti, non so, ma si faceva capire. Poi faceva lo stesso con gli spagnoli arrivati, facendosi aiutare da qualche spagnolo già residente nella fazenda e così via...Io ai grandi proprietari ero abituato, ero abituato ai baroni, che erano i padroni di tutte quelle terre intorno al paese dove ero nato. Sapevo come dovevo comportarmi davanti a un grande proprietario, davanti al padrone. Questo lo avevo imparato fin da bambino, da sempre avevo visto la gente scappellarsi davanti ai baroni, proprietari delle terre e datori di lavoro. Ma i proprietari di quella fazenda non li ho mai visti, non ho mai saputo chi erano. Era sempre il capataz che trattava con noi, che dava ordini, che ci pagava. E sempre faceva in modo di farsi capire da tutti...A principio la fazenda non mi fece buona impressione. Che la terra fosse ricca lo si vedeva subito dalla vegetazione vigorosa, dagli alberi enormi...Ma anche là cera gente mal vestita e scalza, che veniva una voglia matta di scappar via... Ma dopo un po cambiai idea. Noi coloni ricevevamo un salario corrispondente alle piante di caffè in affidamento, chi ne poteva curare di più, guadagnava di più. E poi si poteva piantare mais e fagioli tra una fila e laltra delle piante di caffè, finchè queste fossero ancora basse, perchè la terra era ricca e la si poteva sfruttare così. E avevamo anche una terra a parte dove piantare riso, e mantenere una mucca, fare un orticello. Questo il proprietario lo permetteva senza chiedere nulla, quello che si piantava era roba nostra. Allora io pensai che se veniva tutta la mia famiglia potevamo assieme curare tante piante di caffè e guadagnare molto, potevamo magari diventare ricchi davvero. Giovannina aveva sedici anni, tuo padre quindici, Franceschina nove, Pasquale e Domenico sette. Tutti loro già lavoravano alla carcara di nonna, facevano mattoni, al lavoro erano abituati, e gli altri avrebbero fatto presto a crescere... E Carmelo voleva tanto partire anche lui...Di notte mi addormentavo pensando a questo, pensando a come sarebbe stato bello essere di nuovo tutti assieme, e conoscere laltra sorella che era nata quando noi eravamo ancora sulla nave... Sentivo storie di italiani che avevano già pagato i debiti del viaggio e che avevano comprato terre e piantavano caffè per conto loro. E noi non avevamo neanche i debiti del viaggio, noi lo avevamo pagato il nostro viaggio, mille e ottocento lire lo avevamo pagato, mille e ottocento lire luno. E potevamo far venire anche loro, avremmo fatto debiti con il padrone della terra per far venire loro, ma poi avremmo pagato, come facevano tanti... Io non dormivo la notte pensando a questo...Ma mio padre non volle, non ci fu modo di convincerlo. Non era quello che lui voleva, lui voleva far lAmerica subito, aveva fretta di far lAmerica e ritornare in paese, ed essere linvidia di tutti. A dir la verità, non so quello che voleva lui, non sono riuscito mai a capirlo. So che a lui non piaceva lavorare la terra, non era questa lAmerica sognata da lui, diceva. Per me era un padre padrone, che mi gridava e picchiava senza motivo. La sera noi ragazzi andavamo a scuola, una piccola scuola lí alla fazenda, e imparavamo un po di portoghese. E cera una specie di piazzetta lí davanti e dopo scuola ci fermavamo, stavamo un po assieme, non facevamo niente di male, si parlava,. ci si faceva compagnia. Mio padre non voleva, diceva che era mancanza di rispetto nei suoi confronti. Ma a me piaceva quella compagnia, sentivo meno la lontananza e la nostalgia di casa, di mia madre, dei miei fratelli, e continuavo ad andarci. E un giorno lui mi picchiò, mi picchiò forte perchè, diceva, gli avevo mancato di rispetto, solo perchè ero andato fino alla piazzetta...E allora io fuggii dalla fazenda. Andai a Mogi-Mirim, che era la città più vicina, e là trovai lavoro in una segheria. Cerano molte segherie allora perchè si buttavano giù foreste intere per piantare caffè. E alla segheria facevo tavole, quello era un mestiere che sapevo fare molto bene e il padrone rimase contento del mio lavoro. Ma io non seppi rimanere a lungo lí, pensavo sempre a mio padre, a come doveva stare in pensiero per me e così ritornai alla fazenda. Lui mi picchò di nuovo, io volli compensarlo dandogli i soldi che avevo guadagnato, lui non li volle , ma scrisse a mia madre che aveva un figlio ingrato...
Ha raccontato quasi tutto dun fiato, mio zio, ma ora si ferma un po, aspetta di nuovo che io prenda nota, e ricomincia a raccontare:
- Restammo alla fazenda per altri quattro o cinque mesi. E accadde che una famiglia di spagnoli , andandosene dalla fazenda, ci lasciò il mais e i fagioli che avevano piantato, e a noi bastò solo raccoglere e vendere e così in poco tempo guadagnammo un po di soldi. E allora mio padre volle andarsene dalla fazenda, e disse che era meglio andare in città. In città, diceva, sarebbe stato più facile fare subito lAmerica, ora che avevamo un po di soldi. E andammo a San Paolo. Ma neanche a San Paolo incontrò quello che voleva. Era sempre in cerca di qualcosa che neanche lui sapeva cosa fosse, dietro quella sua idea fissa di fare subito lAmerica. E quando seppe di una esposizione italiana a Rio de Janeiro imbarcò subito per Rio, a lavorare come falegname in quella esposizione, disse. Ma poi rimase a Rio due anni, facendo non so che cosa, e dopo venni a sapere che aveva preso una nave per Montevideo. Me lo scrisse mia madre. Da lei venni a sapere che ero rimasto solo in Brasile, poi lui stesso me lo scrisse...
- E tu, zio? - chiedo, sconcertata alludire la storia di questo nonno che non ho mai conosciuto. Fin da piccola avevo sentito parlare di lui come di uno sempre in giro per il mondo, in sú e in giú per loceano tra Europa e America, e quando un giorno arrivò una lettera e mio padre si fece triste perchè gli era morto il padre e mia madre mi ordinò di non cantare, io cercai di sentire un po di tristezza, ma non ci riuscii, e sentii solo rabbia di non poter cantare quel giorno, solo perchè quel mio nonno non era più in giro per il mondo, e questo non faceva nessuna differenza per me, ora che era morto. Ma ora che ascolto questa storia, capisco la tristezza di mio padre e la tristezza e la solitudine di mio zio, e di tutti quelli che lui aveva lasciato per andare in giro per il mondo, dietro a chissà cosa.
- Io? Cosa potevo fare io?- risponde mio zio. - Ero rimasto solo a San Paolo e dovetti rimanerci. Mio padre quando partì mi aveva lasciato un po di soldi e ci sono andato avanti per una settimana. Ma subito mi misi a cercare lavoro per me. E facevo qualunque cosa capitasse. Mi sono messo per un pó a lisciare pietre per monumenti di cimiteri, poi ho trovato un posto in una fabbrica di tessuti, dei Matarazzo. Dieci ore giornaliere e la domenica fino a mezzogiorno. I soldi mi bastavano appena appena per mangiare e pagarmi la pensione dove abitavo, al Brás, un quartiere per la maggior parte formato da immigrati italiani, a quellepoca. Lavoravo solo per mantenermi, ma una notte uno che divideva la camera con me fuggì portandosi via la mia valigia con tutti i miei vestiti e io rimasi solo con lo straccetto che avevo addosso per dormire e così non potei più andare a lavorare, non potevo neanche uscire per strada. La padrona della pensione fu buona con me, mi prese come aiutante in cucina, così potevo mangiare e dormire senza pagare e guadagnavo qualche soldino senza bisogno di uscire dalla pensione. Di notte lavavo i miei straccetti e li rimettevo la mattina. Per tre mesi non uscii di casa, finchè mi sono potuto comprare un paio di pantaloni e una giacca usati e sono tornato a lavorare in una fabbrica di tessuti, era unaltra fabbrica, ma sempre dei Matarazzo. In quel tempo cerano molte fabbriche di tessuti qui a San Paolo. Era ancora una città piccola San Paolo, ma incominciava a crescere, ad avere fabbriche. Questo nel 23, nel 24...Poi andai a lavorare in una fabbrica di scarpe, ricominciai a fare quello che più mi piaceva. Era una fabbrichetta con pochi operai, le scarpe fatte a mano dallinizio alla fine. Io già sapevo cucire scarpe, lavevo imparato da ragazzo a Soveria Mannelli e ogni giorno, tornando dal mio lavoro, passavo davanti quella fabbrichetta di scarpe e sentivo crescere in me la voglia di fare quel mestiere. E un giorno finalmente mi feci coraggio e mi offrii per lavorare. Il padrone mi chiese di cucire una scarpa lí stesso, davanti a tutti, e io cucii tremando da capo a piedi, con una paura matta che il mio lavoro non gli piacesse .E invece gli piacque, e disse davanti a tutti che non aveva mai visto cucire una scarpa così bene, e la faceva passare di mano in mano, perchè tutti vedessero come si cuciva una scarpa e mi assunse immediatamente. A me sembrò un sogno, tanta era la felicità di ritornare a lavorare como calzolaio. Però dopo cinque o sei mesi la fabbrichetta fallì. Incominciavano a sorgere qui a San Paolo fabbriche più grosse, che usavano macchine per cucire e potevano fare scarpe a più buon mercato. Chi continuava a cucire a mano non resisteva alla concorrenza, ed era costretto a chiudere. Ma per mia fortuna il padrone della fabbrichetta dove lavoravo io, che era figlio di italiani, ma ce ne erano tanti di italiani qui a San Paolo, specialmente al Brás, ebbene, il mio padrone mi propose di continuare a lavorare con lui, a porte chiuse, e io accettai. Facevamo scarpe su richiesta, e così, a porte chiuse, non si pagavano tasse e si poteva guadagnare un po. Io dormivo e mangiavo lí nella casa del padrone e lui ogni tanto mi dava un po di soldi, io praticamente lavoravo in cambio di dormire e mangiare, ma in compenso imparavo il mestiere. Il mangiare non era molto, ma quando avevo un po di spiccioli andavo a comprarmi una dozzina di banane e un filone di pane, mi riempivo la pancia ed ero contento...E pensare che a quellepoca arrivavano lettere dallItalia chiedendomi di mandare soldi, lettere che parlavano di miseria, di bisogni, "beato te che sei in America", dicevano. Ma cosa potevo mandare, a quellepoca?
È in tono accorato che mio zio ha pronunciato queste ultime parole, risentendo vivo quel tormento antico. Poi ricomincia a raccontare col suo modo calmo, soddisfatto di sé.
- Le fabbrichette manuali qui a San Paolo fallivano una dopo laltra. Io stesso, dopo aver imparato bene il mestiere, lavorai in due o tre, e fallirono. I negozianti si, quelli guadagnavano molti soldi, perchè pagavano poco le scarpe e le rivendevano nei negozi a prezzi ben più alti. Le fabbriche con capitali e macchine andavano avanti, schiacciando le piccole. Erano tempi di cambiamento: le officine cedevano il posto alle grandi fabbriche e gli artigiani agli operai. Ma io non volevo diventare operaio. A me piaceva vedere la scarpa nascere intera dalle mie mani. Nella fabbrica avrei perso questo, e questo io non volevo perderlo...
Si sofferma ancora un po, mio zio, si guarda le mani, e presegue:
- Allora mi sono deciso a mettermi a lavorare da solo. Con un po di soldi che avevo messo da parte aprii una botteguccia, sempre al Brás. Era un cantuccio così piccolo che centravo appena io e il mio tavolo da lavoro. Ma era sulla via e la gente passava e mi portava scarpe da aggiustare, e io per farmi i clienti prendevo poco e anche l affitto non era molto, e siccome facevo tutto da solo ho incominciato a guadagnare un po. Mi capitava anche di fare qualche scarpa nuova, su richiesta. Per fare scarpe nuove io compravo i modelli ed era solo eseguirli. Poi mi feci mandare riviste specializzate dallItalia, e libri, e incominciai a studiare, di notte, dopo il lavoro, avidamente, e spesso mi addormentavo leggendo. Mi addormentavo dalla stanchezza, che era tanta, ma incominciavo a fare i miei propri modelli, mi accorgevo che giorno dopo giorno la mia tecnica migliorava e questo mi faceva studiare di più. Studiavo lanatomia del piede, cercando di fare una scarpa che ne rispettasse le necessità, che fosse comoda, ma anche bella. Mi rendevo conto che le scarpe cosiddette anatomiche erano piuttosto brutte, per non dire brutte davvero, e alle donne non piaceva usarle. Io riuscivo a fare scarpe anatomiche, ma anche eleganti e questo piaceva alle donne, che divennero la mia clientela più importante. Potei trasferirmi in una bottega un po più grande, in una via dove passava più gente, ma sempre al Brás. Incominciai realmente a star meglio e potei finalmente mandare un po di soldi a mamma, là in Calabria. Cambiai anche pensione, per star più vicino alla nuova bottega, e nella nuova pensione conobbi Maria, la mia portoghese, figlia della padrona, e ci siamo sposati. Avevamo tutti e due la stessa età, ventun anni, e incominciammo una lotta a due, io a fare scarpe e lei ad andare di porta in porta a farmi la propaganda. Andammo ad abitare in via Ipanema, allangolo della Almeida Lima, dove rimanemmo anni, la bottega davanti, la casa dietro. Sai, è ancora là quella casa, la stessa di allora, sono andato a vederla lanno scorso...
Fa ancora una pausa, mio zio, si sofferma su quei ricordi della compagna di tanti anni :
- Eravamo giovani, Maria e io, non eravamo pigri e un buon sonno ci bastava per vincere la stanchezza. Fu con laiuto di Maria che pian piano la mia scarpa incominciò a farsi largo, ad avere spazio in questa città...
È con occhi lucenti che mio zio parla del suo lavoro, per il quale divenne, negli anni 40 e 50, il calzolaio più raffinato, più elegante di San Paolo.
- I Materazzo, i Crespi e molta altra gente ricca - lo ascolto dire soddisfatto - divennero miei clienti. Ma allora non ero più al Brás. Ero già alla Piazza della Repubblica. Avevo capito che per affermarmi e per avere una clientela di gente ricca dovevo stare in un posto più elegante, e centrale. E allora mi ero trasferito, con Maria e i piccoli, che già erano quattro, alla Piazza della Repubblica, e anche lí avevo il negozio davanti e la casa dietro. A quel tempo era ancora un posto tranquillo la Repubblica, i bambini potevano ancora giocare in mezzo a tutti quegli alberi. I palazzi, i grattacieli, incominciavano appena a costruirli... Ero molto felice quel giorno che mi trasferivo alla Repubblica, perchè era un cambiamento molto importante nella mia vita, un vera svolta. Ma quando arrivai con il camioncino che trasportava le mie cose, vidi manifesti di giornali che a grandi caratteri annunciavano lo scoppio della Seconda Guerra Mondiale... LItalia di nuovo in guerra... Rimasi di stucco, pietrificato davanti quei manifesti...Pensai a mia madre, ai miei fratelli, tutti in età di andare a fare la guerra, anche Carmelo, ormai con più di venti anni. Una pena enorme mi stringeva il petto, mentre scaricavo le mie cose, così contento per la nuova casa, ma così in pena per loro, ripensando a quanto avevo desiderato che fossero venuti tutti alla fazenda di caffè. Pensavo questo e mi tormentavo. Maria cercava di consolarmi, diceva che non mi preoccupassi tanto, che sarebbe andato tutto bene...E quel giorno stesso, tra le cose tutte da mettere a posto ancora, scrissi a mia madre, volevo notizie, al più presto, notizie...
Mi fissa a lungo, mio zio, per trattenere forse la commozione che ancora lo travolge a quei ricordi :
- E le notizie vennero. Seppi che tutti i miei fratelli erano partiti per la guerra e che mia sorella Antonietta era partita per lAustralia, per raggiungere il marito. Era partita da Messina giorni prima che scoppiasse la guerra e mia madre mi scriveva che non aveva ancora notizie di lei, che non sapeva se la sua nave era arrivata o no... Più tardi venne la notizia della morte di Domenico. Me lo scrisse tuo padre dallAlbania, e me lo scrisse mia madre...E intanto io avevo messo sù il mio negozio e gli affari andavano bene. Alla Repubblica avevo messo anche un cartellone, CONSOLATO CALÇADOS. E siccome anche il Consolato italiano era lí alla Repubblica in quel tempo, quando aprivo il negozio la mattina trovavo sempre una fila di gente ad aspettare, di italiani che volevano regolarizzare i propri documenti. E io ogni mattina a dir loro che il Consolato era più in là, che quel CONSOLATO era il mio nome. E quando il Brasile entrò in guerra contro lItalia, Maria mi diceva sempre di togliere quel cartellone, di cambiare nome, perchè, diceva, potevo passare guai. E infatti un giorno misero a fuoco il Consolato Italiano e io cambiai cartellone e misi LAGANÀ CALÇADOS. Lavorai molto in quegli anni di guerra e guadagnai soldi a palate, perchè avevo una clientela fatta solo di gente ricca, che poteva spendere, nonostante la guerra, forse proprio per la guerra... Avevo alcuni operai, tutti artigiani, perchè non ho mai cambiato lo stile della mia produzione, che faceva di ogni scarpa una scarpa unica. Ne guadagnai molti di soldi, in quegli anni di guerra, e pensavo che finalmente lAmerica era arrivata per me....
Mi fissa a lungo in silenzio, mio zio, aspetta che io finisca di prender nota, e continua;
- E invece non andò così. I soldi che avevo in banca me li avevano sequestrati, e non mi avevano chiuso il negozio solo perchè mia moglie era portoghese.. E allora tenevo i soldi a casa, dentro una scatola di scarpe. E ogni giorno li vedevo crescere, e pensavo che quando fosse finita la guerra, che un giorno doveva finire, io sarei stato ricco, avrei potuto fare un viaggio in Italia, rivedere mia madre e i miei fratelli, e avrei potuto aiutarli, ricco, finalmente ricco. Maria non voleva che tenessi tutti quei soldi lí a casa, non si sentiva sicura con tanti soldi dentro una scatola di scarpe, voleva comprare a nome suo qualche casa, un terreno, o tutto un piano in un grattacielo della Piazza della Repubblica. Io non potevo comprare nulla, non potevo avere nessuna proprietà a nome mio. E allora la cosa più sicura mi sembrava fosse aspettare che finisse la guerra, che un giorno doveva finire. E quando finalmente finì vidi quei miei soldi diventare fumo dentro la mia scatola. La svalorizzazione della moneta mi colse con una scatola piena zeppa di soldi che non valevano più quasi nulla...Ho potuto appena comprarmi una casa in via Castro Alves, nel quartiere Aclimação, non molto lontano dal centro dove continuavo ad avere il mio negozio, in un piano di quei grattacieli, che non potei comprare, ma solo affittare. E non ho potuto fare il viaggio in Italia, che avevo tanto sognato...
Io ricordo quella volta che doveva venire uno zio dal Brasile e poi non era venuto più, perchè aveva perso i soldi, non capivo bene come, ma mio padre diceva che li aveva persi. Era lo stesso zio che ci mandava pacchi con caffè, vestiti e scarpe dal tacco alto e strano, che io mettevo per gioco, fingendo di essere in America. E ricordo bene quellodore di caffè nellaria, quando mia madre lo tostava, nel cortile dove abitavamo, quando eravamo rientrati a Roma, alla fine della guerra. Quel caffè era un lusso per noi, lunico lusso, ed era perchè ci veniva così da lontano, da quel Brasile dovera mio zio che aveva perso i soldi, ma che senzaltro doveva essere ricco, per mandarci tanto caffè...
- Anzi, finita la guerra, - continua a raccontare mio zio - cominciarono ad arrivarmi lettere disperate dallItalia, chiedendomi aiuto. La situazione era peggiorata nel dopo-guerra e Carmelo e Pasquale erano ormai decisi a partire a qualunque costo. Carmelo mi scriveva dicendomi che non ne poteva più, mi parlava della guerra, dei due anni di prigionia in Germania... "Fammi venire da te in America", scriveva. Voleva partire, voleva lAmerica anche lui e me lo chiedeva con lo stesso accoramento di quando era piccolo. Io non ero diventato ricco, ma avevo il mio negozio, e potevo andare avanti, magari rifarmi dello smacco ricevuto. E avevo per lo meno una casa, e abbastanza grande, in mezzo a un terreno spazioso, con alberi da frutta, era come essere in campagna, così vicino al centro. Te la ricordi anche tu, quella casa, no? È là che siete venuti ad abitare anche voi, quando siete arrivati dallItalia...
- La ricordo bene, si, zio, la casa in via Castro Alves. Ricordo bene quelle piante dai frutti di nomi e gusti così strani, goiabas, jabuticabas...E ricordo il nostro primo Natale in Brasile, poco dopo il nostro arrivo, un Natale così strano, con tutto quel caldo... - dico, e ripenso a quel mio primo Natale brasiliano, allaperto sotto quelle piante, con tanto caldo, e un enorme cocomero troneggiando in mezzo al tavolo, che sembrava fosse Ferragosto, e invece era Natale, e tutti dicevano Buon Natale e si abbracciavano e mi abbracciavano, e io mi chiedevo dove fosse andato a finire il mio Natale di freddo e caldarroste, e scappai via, a piangere di nascosto il mio Natale perduto...
- Anche a me sembrò strano il Natale quando sono arrivato e pensavo al Natale freddo del mio paese, con il suono degli zampognari che scendevano dalle montagne e giravano per i paesi...Quel suono di zampogna nellaria non lho più dimenticato, se chiudo gli occhi lo sento risuonare dentro di me ...Ma poi uno poco a poco si abitua a tutto, e anche il caldo del Natale diviene una cosa naturale...Ma si stava veramente bene, in quella casa, con tutto quello spazio. Te ne ricordi? Avevo anche costruito un campo di bocce, e con tuo padre e Carmelo giocavamo sempre, nei pomeriggi di sabato e la domenica. E mamma ci stava a guardare.
Cè molta nostalgia nelle parole di mio zio, e rimpianto per i fratelli morti, lui il più grande, nostalgia di quegli anni nella Castro Alves, di quei pochi anni dAmerica che avevano avuto assieme, giocando a bocce sotto quegli alberi di nomi così strani, lontano dal paese dove erano nati.
- Carmelo arrivò qui nel 48, dopo il suo ritorno dalla prigionia. E nel 49 andammo assieme a visitare nostro padre, a Montevideo, e Maria venne con noi, per conoscere questo suocero pazzo, diceva.. Lo trovammo che abitava in una casetta fatta di lamiere di zinco, con un piccolo giardino dove piantava qualche verdura, in un quartiere povero della città. Abitava da solo, si faceva lui stesso da mangiare e una donna gli lavava e stirava i panni. Era vecchio, ma ancora in gamba, si beveva il suo buon bicchiere di vino ogni giorno e camminava ancora ritto, con quel suo modo da padrone, che tanto mi impauriva da ragazzo. Fui contento di rivederlo, dopo tanti anni, e anche Carmelo era contento di vedere il padre che non ricordava, e Maria disse che magari lui poteva venire ad abitare con noi in Brasile, ma lui non volle, stava bene lí, disse. Poi nel 50 rividi Pasquale, quando passava a cammino di Montevideo, richiamato da parenti della moglie. Andammo a Santos per vederlo, Carmelo e io, e siccome la sua nave si fermava una notte, lui venne a San Paolo con noi e passò quella notte a casa mia...
Ascolto mio zio e ricordo di averli visti anche io, zio Carmelo e zio Pasquale, quando erano di passaggio per partire per lAmerica, ricordo specialmente come si somigliavano mio padre e zio Pasquale, tutti e due alti e bruni, la testa folta di capelli neri. Io credevo che fossero gemelli e invece poi mia madre mi disse che il gemello vero non cera più, che era morto in guerra, e che questo zio veniva dalla Calabria e passava da noi a Roma per salutarci, perchè partiva anche lui per lAmerica, come Carmelo, che era passato prima e aveva regalato un fucile di latta a mio fratello più piccolo e io pensavo che lAmerica era una terra dove andavano gli zii che non erano morti in guerra, e lasciavano i fucili perchè là non servivano...
- E poi nel 51 venne mia madre con mia sorella Marietta, - continua a raccontare mio zio - e io fui molto contento di rivedere mia madre dopo tanti anni e di conoscere Marietta, che era nata quando mio padre e io eravamo in viaggio per lAmerica... Marietta voleva conoscere nostro padre, e io scrissi a lui insistendo di venire in Brasile, di venire ad abitare con me, a San Paolo, ora che cerano anche mamma e Marietta... Ma lui non volle, disse di nuovo che non voleva più spostarsi ormai, che era vecchio e non voleva più uscire da quella sua casetta di zinco..Lui non venne, Marietta non andò a vederlo, poi disse che non le faceva bene laria di qui, volle ritornare in paese, e andò via senza conoscere il padre, riportandosi indietro mamma con lei. Poi venni a sapere che si era sposata ed era partita per lAustralia, e abitava vicino alla sorella Antonietta...
- E nonna partì di nuovo per il Brasile con noi, nel 55...- dico io.
- Già, - risponde mio zio - mia madre ritornò in Brasile quando siete venuti voi. Però di questo mi sono pentito. Era meglio che fosse rimasta al paese, lei. Non si abituò mai a questa città, non poteva abituarsi con letà che aveva. Io non lho capito subito, lho capito dopo, quando ormai era troppo tardi... Tuo padre invece voleva proprio partire. Incominciò a scrivermi subito dopo la guerra, diceva che era rimasto senza lavoro, che non faceva più il carabiniere, che anche lui era stanco di guerra, che aveva due figli maschi e che voleva andare in un posto dove non ci fosse guerra...E continuò a scrivermi finchè non gli feci il richiamo...
- Io ho sempre creduto che fossi stato tu a insistere perchè noi venissimo...- dico, ripensando a quante volte avevo sentito di odiare questo zio per considerarlo la causa del dolore senza scampo che avevo provato a quindici anni, quando mio padre aveva detto: "Andiamo in Brasile". Così, allimprovviso: "Andiamo in Brasile". E dimprovviso la terra lontana dall odore di caffè diveniva una crudele reltà per me, e un dolore di lama tagliente mi spezzava in due, strappandomi senza pietà da tante cose che erano parte di me, la casa a Roma, la scuola, i miei compagni, il ragazzo che era il mio primo amore... Mai più vacanze a Fratterosa, con nonna Gemma e nonno Giuseppe e tante zie e zii e cugine e cugini con i quali avevo sempre vissuto... Partivo anche io come i miei zii che non erano morti in guerra, e io sentivo di morire partendo, e non volevo partire, io no...
- Io no, - riprende mio zio - era tuo padre che me lo chiedeva. Mi mandava lettere chiedendomi di aiutarlo a emigrare, di fargli il richiamo, a lui e a tutta la famiglia. Non voleva partire solo lui, no, voleva partire con tutta la famiglia. Mi scriveva che aveva imparato a fare l elettricista, ed aggiustava anche radio e televisioni, ma non cera lavoro in Italia...E come dopo la guerra il Brasile aveva riaperto limmigrazione sovvenzionata, non più per agricoltori, ma per tecnici, ho potuto fargli il richiamo con tutta la famiglia, trovandogli anche un posto, in una fabbrica di televisioni...E così siete venuti tutti voi, e mamma venne con voi, e poi venne anche Maria Teresa...
- Come una palla di neve...
- Già, come una palla di neve...- ripete mio zio, e sorride di nuovo a quel suo ricordo. E dice;
- Al paese sono tornato solo dopo quarantacinque anni, quando voi eravate già qui. Ho rivisto Govannina, che abitava a Reggio Calabria e Franceschina, lunica rimasta in Adami. Il paese lo ricordavo bene, non era cambiato quasi nulla, ripercorsi di nuovo tutte le vie, rividi i miei rifugi di bambino, la Fontana Vecchia, la vecchia quercia allentrata del paese. Era come se il tempo non fosse passato, ma molte erano le case chiuse, molta gente era partita, emigrata in America o in Australia, solo pochi erano rimasti, quasi nessuno per le strade vuote...Cercai di ricordarmi il nome della ragazza che mi aveva gettato quella palla di neve, ma non ci riuscii...E così non seppi se era partita anche lei, se era ormai morta, o se era, chi lo sa?, una di quelle donne vestite di nero che passavano silenziose per le vie deserte...Non ho potuto saperlo...E non ho più rivisto la neve, in vita mia...Recolher